I piedi e gli occhi

Posted in General by midbar on 09/12/2020 13:54

Ieri, 8 dicembre 2020, Papa Francesco, con la Lettera apostolica “Patris corde – Con cuore di Padre”, ha indetto uno speciale “Anno di San Giuseppe”.

Mi è tornato allora in mente un bellissimo post di “farfintadiesseresani” pubblicato, anni fa, in “Post sotto l’albero 2008”… lo ricondivido per intero.

I piedi e gli occhi

[farfintadiesseresani]

Dicono Riposo durante la fuga in Egitto
MICHELANGELO MERISI, detto IL CARAVAGGIO,
1593-1594, olio su tela, 135,5 x 166,5 cm, Roma, Galleria Dora Pamphilij

Non saprei da che cosa cominciare, c’è l’imbarazzo della scelta.
Potrei cominciare dall’angelo, fatto di pura luce, che taglia in due la tela, dividendo ciò che sta a destra da ciò che sta a sinistra e aprendo uno squarcio (un po’ meraviglioso, un po’ minaccioso) tra l’altrove e il nostro spazio, quello in cui stiamo noi spettatori. Caravaggio come una sorta di Lucio Fontana d’antan, insomma. L’angelo è una presenza solo falsamente leziosa e rassicurante. È, piuttosto, una spada, un giudizio di separazione irrimediabile, la parola ultimativa circa il fatto che quella Donna e quel Figlio non apparterranno mai più a Giuseppe, almeno non come Giuseppe se l’era – forse – immaginato.

La luce dell’angelo, poi, irradia sulla Vergine e sul Bambino, rinchiusi in un ovale perfetto. La luce accende il calore, fatto dei toni del rosso e dell’oro della veste di Maria. C’è anche quel drappo nero sul quale il Bambino s’appoggia, forse presagio del lutto che verrà, velluto nero da camera mortuaria.Tutto il resto, però, da questa parte della tela è pace, è oblio sereno, è mandorla investita da luce soffusa, a sua volta da qui irradiata.
Sullo sfondo c’è l’aria aperta. Il mondo, che il Merisi aveva imparato a dipingere dai veneti. Un fiume tra le canne (il Giordano? Il Nilo? L’Adda?), le colline laggiù, il cielo tra l’indaco e il grigio pallido. Quel Bambino e quella luce non sono venuti per rimanere tra le braccia della Madre, ma presto (oddìo, presto: tra una trentina d’anni, santi patroni di tutti i bamboccioni) prenderanno il volo. Il calore dell’abbraccio in cui riposano è il nutrimento che servirà all’impresa.

Però, in verità, in questo quadro non c’è niente di più bello di Giuseppe. Refrattario alla luce, dipinto in toni bruni, con un grosso asino dagli occhi buoni alle spalle. Se dall’altra parte tutto è luce e calore (con l’eccezione del drappo nero), da questa tutto è terra, è umanità un po’ animale, quell’umanità che non si perde – perché non ne sarebbe capace – in raffinate speculazioni, in teosofismi, in ardite concrezioni intellettuali. Ci sono l’asino da condurre e il sacco da portare e il fiasco da tenere sempre pronto, casomai la Sposa avesse sete. Preoccupazioni pratiche. Preoccupazioni che si addicono a un falegname.
E adesso che, per un momento certo breve e passeggero, ci si può riposare, dentro una miracolosa bolla di luce e calore che protegge dalla ferocia degli uomini e dalle fatiche del vivere, ecco che ci si può mettere lì a reggere uno spartito, ché l’angelo possa suonare la sua musica. La sua dell’angelo, non quella di Giuseppe.
Povero Giuseppe. Si sente inadeguato a tutto quel che gli è successo e gli sta succedendo. Guardategli i piedi, vi prego. Caravaggio è un genio per molti motivi, ma soprattutto per come dipinge i piedi. Sono, quelli di Giuseppe, piedi umani, troppo umani. Goffamente sovrapposti, con l’alluce sinistro che s’inarca, a manifestare un certo imbarazzo e la consapevolezza di essere al cospetto di qualcosa talmente grande da risultare travolgente.
La musica che l’angelo suona è la melodia di un canto. Caravaggio non ha dipinto note a caso su quello spartito. Ha riprodotto l’incipit di un mottetto del ‘500, “Quam pulchra es” di Noel Bauldwijn, un compositore fiammingo.

Quam pulchra es et quam decora,
charissima, in deliciis!
Statura tua assimilata est palmae,
et ubera tua botris.
Caput tuum est Carmelus,
collum tuum sicut turris eburnea.

Quanto sei bella e quanto sei graziosa,
o amore figlia di delizie!
La tua statura rassomiglia a una palma
e i tuoi seni ai grappoli.
Il tuo capo si erge come il Carmelo,
il tuo collo come la torre d’avorio.

Giuseppe le capisce, queste parole. Oh, se le capisce. La ama davvero, la sua Sposa. La ama come si può amare una donna permeata da quella luce e dal quel calore. E il Bambino, ovvio che lo ami. Farebbe di tutto pur di proteggerlo e vederlo crescere, e poi sarà quel che sarà.
Certo, questo è un po’ tutto quel che Giuseppe capisce. Niente di più. Gli occhi sembrano un po’ smarriti. Vorrei vedere voi, al suo posto. Gli è passato addosso un treno, negli ultimi tempi. È lì che, contento e spaventato e stordito, non sa nemmeno bene che cosa pensare, che cosa fare se non lasciare che la realtà continui il suo cammino sorprendente e travolgente, andandole dietro con i suoi piedi goffi da falegname e la sua sacca e il suo fiasco e il suo asino dagli occhi buoni.

Infine, però, non so se l’avete notato: Giuseppe è, tra tutti, noi spettatori compresi e compresi pure Maria (la Prescelta e la Preservata) e il Bambino (la seconda persona della Trinità e Logos divino), è l’unico – dicevo – che ha gli occhi fissi in faccia all’angelo. Che ha gli occhi fissi in faccia a Dio.

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